William Kentridge è un artista dal fascino complesso, celebre in tutto il mondo per la sua versatile attività, che conferisce alla sua opera assoluta originalità. Artista visivo, disegnatore, regista teatrale e di film d’animazione, il sudafricano Kentridge guarda con estrema consapevolezza e con la massima lucidità alla storia del suo Paese, percorrendo un impegno di grande forza espressiva. Kentridge forgia metafore poetiche potenti che riflettono profondamente la condizione dell’uomo contemporaneo, radicate nella faticosa e drammatica realtà politica che caratterizzò fortemente gli anni del secondo dopoguerra nell’Africa dell’Apartheid.
Personaggio di ardente creatività, nelle sue opere, rivelatrici di una cruda ed emblematica visione del mondo, non utilizza un unico mezzo espressivo, ma una combinazione frutto di lavori grafici, serigrafie, disegni a carboncino, collage; e ancora installazioni e spettacoli a cui infonde vita attraverso animazione, musica, teatro e danza. La drammaticità e l’impegno rivolto ai temi politico-sociali sono esaltati dall’uso di contrasti sottolineati da colore alcuno, solo il bianco e il nero, caratteristica predominante dei suoi lavori, e dall’abilità di cogliere personaggi e situazioni servendosi di minimi tratti che diventano intenso mezzo di espressione della sofferenza umana e della speranza al tempo stesso.
L’artista sudafricano raggiunge livelli straordinari con la tecnica del cartone animato, recuperando attraverso l’intimità del gesto del disegnare e un distintivo marchio nostalgico che lo caratterizza, un mezzo espressivo considerato ormai obsoleto in un mondo sovrastato da recenti e continue tecnologie. Il suo è un lavoro lento, graduale, a stretto contatto con la materia, quella materia fisica a lui cara e indispensabile; l’artista racconta che il “fare arte” è qualcosa che avviene attraverso il corpo, attraverso gestualità che rimarcano un forte senso di precarietà, di imprevedibilità e di incertezza, concetti chiave della poetica Kentridgiana. Tutto è in continua metamorfosi nei suoi avvincenti disegni animati: ad ogni segno corrisponde una cancellatura e un nuovo progetto, che metaforicamente induce un pentimento, il desiderio di annullarsi, l’occasione di redimersi da un passato doloroso e fatto di ricordi drammatici, di abusi e di ingiustizie che come fantasmi perseguitano l’uomo da secoli e che Kentridge vuole raccontare.
Il rimando alle visioni apocalittiche goyane scaturite dalla diretta osservazione dei drammi della storia è molto forte, così come l’influenza delle intuizioni grottesche del realista Otto Dix, senza dimenticare il fascino subito dalla lezione picassiana del collage.
Sapientemente esemplificativa della produzione dell’artista cantore dei drammi del Sudafrica è la mostra Thick Time ospitata dalla Whitechapel Gallery di Londra, visitabile fino al 15 gennaio 2017. Il tempo è una componente essenziale nell’animazione, così come nell’opera di Kentridge, tanto da imporsi come protagonista nella magistrale installazione The Refusal of Time, un insieme di film animati con una proiezione sincronica di cinque canali, definita da una processione di ombre che danzano e da una cacofonia di orologi, fagotti e metronomi. La musica che fa da sfondo è organo vitale nell’opera dell’artista; essa esiste in quanto dimensione ciclica, dimensione nella quale l’uomo può opporsi all’incontrollabilità del tempo.
Quella dell’artista sudafricano sul tempo è una riflessione che avvolge lo spettatore in un intrecciarsi pulsante e vorticoso di teatro, disegno, musica, danza e cinema, in cui lo stesso tempo sembra mescolarsi e annullarsi magicamente. Un’indagine scientifica scaturita da una serie di incontri e scambi con il fisico Peter Louis Galison che riflette sulla valenza del concetto metaforico di tempo; teorie scientifiche trasferite all’interno della propria coscienza e in quella di chi diviene spettatore delle sue creazioni. I buchi neri che l’artista cita e che con la loro straordinaria forza gravitazionale risucchiano tutto quello che c’è intorno, non sono altro che un rimando al grande buco nero, metafora del vuoto profondamente radicato nell’animo umano.
Kentridge focalizza la sperimentazione dal punto di vista scientifico, non senza approfondire quello antropologico ed esistenziale. Ed è proprio nel profondo dell’animo umano che prendono vita quegli interrogativi di natura esistenziale indotti dalla riflessione che lo scadere del tempo suscita; il suo passaggio lento e inesorabile di fronte agli eventi drammatici che accadono inevitabilmente lasciandoci vittime, porta a riflettere sull’impotenza dell’uomo di fronte alla negazione dello stesso.
La grandezza di Kentridge sta nel tentare di riconciliarsi con quel tempo passato che avverte come un macigno, con il quale è giunta l’ora di fare i conti. L’artista rielabora e rilegge il passato attraverso il suo disegno in divenire, attraverso un’operazione continua sulle immagini. Una nuova plasticità si scorge, una composizione fatta di soggetto e struttura perfetti, di forme sconosciute simbolo di una nuova realtà, un nuovo personaggio e una nuova storia da raccontare.
pubblicato su Sineresi Art Magazine