La cognizione del proprio io nell’opera di Lee Bul

«..Se non avessi fatto arte, sarebbe stato difficile resistere alla vita.».. Così Lee Bul, una delle maggiori artiste della sua generazione, definisce il suo percorso in un’intervista rilasciata a Brilliant Ideas.

Nata e cresciuta in Corea del Sud in un periodo di repressione e dittatura militare, Lee Bul rappresenta una delle figure artistiche contemporanee più complesse e imprevedibili del nostro tempo, la cui identità ha forgiato la sua arte indiscutibilmente inconsueta. Bul esordisce verso la fine degli anni ’80, successivamente allo studio della scultura, nella creazione di forme “mostruose”, spesso accompagnate da performance di strada e concepite come consapevole rifiuto della scultura convenzionale, figlia di un regime militare e opprimente.

Alcune sculture verranno indossate dall’artista durante le esibizioni in strada e in altri luoghi pubblici, come in Cravings (1989), attraverso la quale l’artista scompone il concetto di bellezza e genere, indossando un costume con protuberanze e viscere, per mettere così in discussione quell’ideale classico di corpo femminile da sempre modello di equilibrio, grazia e armonia. Etichettate come “Guerrilla performance”, le sue prestazioni, inizialmente guidate da un intento provocatorio, cominciarono a evolversi in qualcosa che avrebbe presto dissestato il pubblico, qualcosa di insolito: una prestazione il cui intento evocativo iniziava a perdere quello scopo originario di ribellione, favorendo al contempo nuovi stimoli e nuove idee.

Più tardi Bul scioccherà il pubblico con Abortion (1989), performance che vede l’artista, per metà nuda e sospesa con i piedi legati al soffitto, discutere apertamente sul tema dell’aborto. È la voce della libertà espressiva che conferisce potere alla sua opera e allo stesso tempo evidenzia l’oppressione e la violenza nella società di cui è figlia, mettendone in discussione l’autorità patriarcale e l’emarginazione della figura della donna.

Ma la sua ricerca progredisce successivamente negli anni ’90, aprendosi a una considerazione del corpo come visualizzazione tangibile del desiderio umano di perfezione e dell’idea di unire macchina e organismo per trascendere i limiti del corpo umano, creando un ibrido tra scultura e design che è tipico di questa nuova fase. È il tempo delle serie di Cyborgs e Anagrams, in cui appaiono forme femminili erotizzate e fuse con macchine, in cui fragilità ed energia convivono e attraverso le quali sceglie di schierarsi contro quell’immorale imposizione sociale sulla donna coreana.

È sempre indiscutibilmente l’essere umano a costituire il punto cruciale della sua opera, l’osservatore, colui il cui corpo interagisce con l’installazione o che addirittura ne diventa parte integrante. Con la sua opera Lee Bul induce alla riflessione e alla consapevolezza di sé, rivelatrice della Verità più profonda, insita in noi stessi. È la cognizione di sé quel denominatore comune che ci rende uguali e allo stesso tempo distinti per la diversità che ci circonda e la differente percezione del mondo da parte di ognuno. In Bells from the Deep (2014) sono le strutture sperimentali, realizzate con materiali riflettenti e accuratamente selezionati, a creare spazi architettonici in scala e specchiati, dove lo spettatore compie un percorso obbligato che lo rende sempre più consapevole della propria presenza e dei suoi movimenti sempre più distinguibili, percepibili e inconsciamente sonori.

Installazioni di forme e strutture architettoniche che lasciano spazio ad un’esplorazione multiforme, frammentata, il cui intento non è altro che quello di riflettere la visione del mondo di ogni essere umano. È questo il manifesto poetico dell’artista sudcoreana, che trae ispirazione nelle sue creazioni dall’architettura e dall’urbanistica moderna, riproposte sotto forma di paesaggi metropolitani drammatici e visionari, esplorando prima fra tutti l’interazione fra l’essere umano e l’ambiente circostante, in modo da stimolarne la curiosità e scatenarne dissimili percezioni.

Lee Bul si prefigge di capovolgere o, più appropriatamente, di ricreare un vero e proprio percorso di visione fatto di sperimentazione, ma anche di utopia (tema caro all’artista), quel desiderio umano di perfezione, proiettato in una dimensione spazio-temporale indefinita e perfettamente contestualizzata nell’installazione di Bul. Il limite esplorato è quello tra sogno e realtà, due dimensioni opposte che corrono lungo lo stesso binario, ma che disorientano l’essere umano a tal punto da restituire un’immagine distorta di chi la guarda. Stephanie Rosenthal, direttrice della mostra di Bul alla Hayward di Londra descrive le sue opere come «spettacolari e belle da vedere, ma dietro c’è sempre dolore».

L’essere umano per Lee Bul è estremamente sensibile, alla ricerca di un modello di perfezione nel quale raggiungere consolazione e conforto, ma consapevole del proprio limite nel non poterlo mettere in atto. Una cognizione di sé che accomuna lo spirito umano, ma che offre una conoscenza del mondo possibile limitata, soggettiva e distante dalla realtà.

pubblicato su Sineresi Art Magazine

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